Leggendo il racconto di Gabriele mi è subito tornata alla mente la frase, diventata ormai quasi un tormentone "vola solo chi osa farlo", pronunciata dal gatto Zorba alla gabbianella, racconto del recentemente scomparso Luis Sepulveda. In quella frase c'è tutto un mondo di desideri, realizzabili e irrealizzabili, che galleggiano dentro di noi. Come fare per rompere il laccio della routine mentale che ci impedisce di diventare quello che vorremmo essere? Ci vuole uno strappo, la volontà di andare oltre. Questa metafora per un ostacolista è il pane quotidiano eppure anche lì, se non credi di potercela fare, non compirai mai e poi mai quel balzo verso l'ignoto che ti porta nell'oltre. Solo così riusciremo a prosciugare la palude che ci blocca e potremo avanzare leggeri con spinte reattive!
Matteo Tonutti
D.S. ASD Atletica 2000
Era il 2019. Terzo anno di università, laurea incombente. Ultimo anno promessa, aspettativa pressante. “Goditelo perché sarà il tuo ultimo anno”. “Prossimo anno diventi vecchio”. “Ormai hai finito”. Questi i commenti dei compagni atleti che, con un po’ di umorismo cinico, forse non così cinico e forse nemmeno umoristico, espressero esaustivamente come viene vissuto in genere l’ultimo anno da under 23.
L’atleta sa di trovarsi ad un punto di svolta. L’equilibrio viene interrotto e sente la necessità di capire cosa fare, percepisce l’incombenza del decidere. Il problema è che, il più delle volte, invece di scavarsi la fossa, dovrebbe tuffarsi nel “don’t worry, be happy”. Ovviamente a me piace scavare. La prima settimana di gennaio apriva le porte alla prima gara, al primo feedback e, dunque, al vero, crudo, intransigente giudizio della pista.
Ho sempre ritenuto la “rottura del ghiaccio” un grande momento. E da grandi momenti derivano grandi ansie. Ma fino qui, tutto bene. Nulla di nuovo. Non ci sono problemi nemmeno se la gara va male. “Dopotutto era la prima, so cosa ho sbagliato, so cosa migliorare”. Di nuovo: la sagra dell’ovvio.
Purtroppo, non è andata così quell’invernale. Lo sblocco iniziale mi aveva folgorato. È stato come svegliarsi di soprassalto. Mi sono reso conto che, anche se ti alleni duramente, non è ovvio che il tasso di miglioramento annuo non decrementi. Era invece ovvio che mentalmente io fossi cambiato, ma avevo tutta l’impressione che avessi perso qualcosa lungo la strada. Mi mancava un “perché?”. Avevo una risposta, ma non la ritenevo adeguata o all’altezza. La competizione per la vittoria non è una valida ragione se non è accompagnata da qualcos’altro. Qualcosa di più personale.
Tutto ciò, condito con un pizzico di sessione universitaria, contribuirono a terremotare le mie certezze e così: nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai in una selva oscura. Le indoor passarono rapide come non mai, le mie performances non mi avevano permesso di realizzare qualcosa di grande, non mi soddisfacevano. Sentii come se un’opportunità, un’altra, se ne fosse andata, irrimediabilmente persa: “Valgo abbastanza?”, “Posso farcela?” sono domande tipiche quando a fronte di un’uscita del 100%, il ritorno è del dieci, o meno. Mi sentii perso, senza motivazione. Panico.
Qualcosa doveva cambiare, dovevo pensare. Il work hard c’era. Ma il work smart? E fu così che, improvvisamente, dal turbinio di pensieri emerse qualcosa, durante una cena con la mia famiglia, quasi come per scherzo, senza minimamente crederci, esordii: “Basta, vi faccio una promessa: quest’anno vado agli Europei”. Buffo è che non ero nemmeno sicuro ci fossero.
Era il 2019. Terzo anno di università, laurea incombente. Ultimo anno promessa, aspettativa pressante. “Goditelo perché sarà il tuo ultimo anno”. “Prossimo anno diventi vecchio”. “Ormai hai finito”. Questi i commenti dei compagni atleti che, con un po’ di umorismo cinico, forse non così cinico e forse nemmeno umoristico, espressero esaustivamente come viene vissuto in genere l’ultimo anno da under 23.
L’atleta sa di trovarsi ad un punto di svolta. L’equilibrio viene interrotto e sente la necessità di capire cosa fare, percepisce l’incombenza del decidere. Il problema è che, il più delle volte, invece di scavarsi la fossa, dovrebbe tuffarsi nel “don’t worry, be happy”. Ovviamente a me piace scavare. La prima settimana di gennaio apriva le porte alla prima gara, al primo feedback e, dunque, al vero, crudo, intransigente giudizio della pista.
Ho sempre ritenuto la “rottura del ghiaccio” un grande momento. E da grandi momenti derivano grandi ansie. Ma fino qui, tutto bene. Nulla di nuovo. Non ci sono problemi nemmeno se la gara va male. “Dopotutto era la prima, so cosa ho sbagliato, so cosa migliorare”. Di nuovo: la sagra dell’ovvio.
Purtroppo, non è andata così quell’invernale. Lo sblocco iniziale mi aveva folgorato. È stato come svegliarsi di soprassalto. Mi sono reso conto che, anche se ti alleni duramente, non è ovvio che il tasso di miglioramento annuo non decrementi. Era invece ovvio che mentalmente io fossi cambiato, ma avevo tutta l’impressione che avessi perso qualcosa lungo la strada. Mi mancava un “perché?”. Avevo una risposta, ma non la ritenevo adeguata o all’altezza. La competizione per la vittoria non è una valida ragione se non è accompagnata da qualcos’altro. Qualcosa di più personale.
Tutto ciò, condito con un pizzico di sessione universitaria, contribuirono a terremotare le mie certezze e così: nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai in una selva oscura. Le indoor passarono rapide come non mai, le mie performances non mi avevano permesso di realizzare qualcosa di grande, non mi soddisfacevano. Sentii come se un’opportunità, un’altra, se ne fosse andata, irrimediabilmente persa: “Valgo abbastanza?”, “Posso farcela?” sono domande tipiche quando a fronte di un’uscita del 100%, il ritorno è del dieci, o meno. Mi sentii perso, senza motivazione. Panico.
Qualcosa doveva cambiare, dovevo pensare. Il work hard c’era. Ma il work smart? E fu così che, improvvisamente, dal turbinio di pensieri emerse qualcosa, durante una cena con la mia famiglia, quasi come per scherzo, senza minimamente crederci, esordii: “Basta, vi faccio una promessa: quest’anno vado agli Europei”. Buffo è che non ero nemmeno sicuro ci fossero.
Inizialmente credevo di non crederci. E anche successivamente per la verità. Insomma: gli Europei! Avrei dovuto fare PB di 20 centesimi avendo poco tempo per costruirlo. Non mi sentivo in grado.
Capii però che con il forma mentis attuale non ci sarei riuscito. Avevo bisogno di cambiamento per migliorarmi e così feci. Con rinato entusiasmo cercai di allenarmi in modo intelligente, spremendomi su quelli che erano i miei difetti, incalzando laddove vi erano pregi. Cercai di disciplinarmi e, con l’aiuto del mio grandissimo allenatore, Edmondo Codarini, proseguii lungo la mia strada.
Raccolsi i risultati all’apertura della prima outdoor, un bel PB e quasi il minimo per la manifestazione europea. Il problema era quel “quasi”. Alle gare successive non riuscii a ripropormi così bene e mi sentii come se stessi cercando di raccogliere qualcosa di estremamente scivoloso. Ogni volta che c’ero quasi, sguizzava via.
Spostai il mio focus sui campionati italiani. Rieti, pista sublime, che mi aveva sempre regalato soddisfazione. Combattendo fino all’ultimo ostacolo riuscii a conquistare un terzo posto con un buon tempo. Ma non era quel tempo.
La scadenza per l’ottenimento del minimo era prossima. Non mi arresi, ma cominciai ad accettare il fatto che forse non sarei riuscito a mantenere quella dannata promessa, fatta così a cuor leggero, ma che non se n’è mai andata.
Così diressi lo sguardo ai CdS di Imola 2019. Pista nella quale non avevo mai gareggiato, di cui non avevo mai sentito parlare. Sarebbe stata l’ultima possibilità. Se da una parte era evidente che la probabilità fosse contro di me, non mi sarei arreso per nulla al mondo. Se non avessi avuto più cartucce, avrei tirato il fucile e poi mi sarei buttato io, tanto volevo quel minimo.
Capii però che con il forma mentis attuale non ci sarei riuscito. Avevo bisogno di cambiamento per migliorarmi e così feci. Con rinato entusiasmo cercai di allenarmi in modo intelligente, spremendomi su quelli che erano i miei difetti, incalzando laddove vi erano pregi. Cercai di disciplinarmi e, con l’aiuto del mio grandissimo allenatore, Edmondo Codarini, proseguii lungo la mia strada.
Raccolsi i risultati all’apertura della prima outdoor, un bel PB e quasi il minimo per la manifestazione europea. Il problema era quel “quasi”. Alle gare successive non riuscii a ripropormi così bene e mi sentii come se stessi cercando di raccogliere qualcosa di estremamente scivoloso. Ogni volta che c’ero quasi, sguizzava via.
Spostai il mio focus sui campionati italiani. Rieti, pista sublime, che mi aveva sempre regalato soddisfazione. Combattendo fino all’ultimo ostacolo riuscii a conquistare un terzo posto con un buon tempo. Ma non era quel tempo.
La scadenza per l’ottenimento del minimo era prossima. Non mi arresi, ma cominciai ad accettare il fatto che forse non sarei riuscito a mantenere quella dannata promessa, fatta così a cuor leggero, ma che non se n’è mai andata.
Così diressi lo sguardo ai CdS di Imola 2019. Pista nella quale non avevo mai gareggiato, di cui non avevo mai sentito parlare. Sarebbe stata l’ultima possibilità. Se da una parte era evidente che la probabilità fosse contro di me, non mi sarei arreso per nulla al mondo. Se non avessi avuto più cartucce, avrei tirato il fucile e poi mi sarei buttato io, tanto volevo quel minimo.
Purtroppo, non c’erano le classiche premesse che lasciavano trasparire la possibilità di una gran gara: il campo da riscaldamento senza campo e senza ostacoli, qualche dolorino qua e là. Decisi che avrei ignorato tutto ciò. Avrei ignorato il caldo torrido. Avrei ignorato i ritardi. Avrei ignorato la mia aspettativa. Decisi che non avrei pensato, mi sarei lasciato invadere da ciò che il mio corpo provava in ogni momento. Decisi che avrei disimparato tutto, non avrei lasciato che mi conducesse il nervosismo, non avrei pensato alla tecnica e nemmeno al fatto che avevo fatto fare alla mia famiglia 300km per venirmi a vedere: l’ultima possibilità.
Lo sparo mi catapultò in un altro mondo, fatto di sensazioni primordiali, di istinto, uno stato animalesco dove non sai cosa stai facendo e lo sai benissimo. La scarica di adrenalina mi sostenne anche sugli ultimi ostacoli. Letteralmente mi lanciai sulla linea dell’arrivo: avevo dato qualsiasi cosa avessi.
Non feci in tempo a voltarmi per leggere il risultato; proseguii a frenare per qualche decina di metri. Mi voltai e lentamente, fatidicamente, ineluttabilmente mi diressi verso il tabellone. C’erano gli applausi, ma erano quelli da “bravo, ci hai provato”.
A metà strada ebbi i brividi, un boato esplose dalle tribune, non capii nulla, ma quei numeri di colore giallo intenso non mentivano. Avevo mantenuto la promessa. E non c’è stata cosa più bella che farlo con i propri amici e la propria famiglia a fianco.
Gabriele Crnigoj
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