martedì 26 maggio 2020

ATLETICA E' LIBERTA'! racconto di Antonella Inga #restiamouniti



Avete mai provato a correre bendati su un rettilineo? Non avere alcun riferimento visivo per un vedente è un'esperienza molto impegnativa. Si perde letteralemente il controllo e la coordinazione, non si riesce a seguire la linea retta, ci si toglie dopo pochi metri la benda.
Obbligati a non vedere si devono acuire gli altri sensi, così migliora poco alla volta l'equilibrio, la capacità di controllare i movimenti, la reattività ma... senza una guida tutto ciò non è possibile!
Antonella e Giulia. Antonella si muove con gli occhi di Giulia come se i due corpi fossero un tutt'uno. Giulia ha imparato che la vista di Antonella è profonda perché vede oltre non vedendo, va nel profondo. Nella realtà entrambe sono guide ed entrambe sono guidate. Tutte due inseguono ala linea, fisica o immaginaria, del traguardo.

Matteo Tonutti
D.S. ASD Atetica 2000

Atletica per me ha sempre significato libertà. Ho iniziato a correre all’età di nove anni nel gruppo sportivo del mio paese brianzolo. Adoravo gli allenamenti con gli ostacoli, il salto della corda, il lungo. La sensazione di rimanere sospesa per aria anche se per pochissimi secondi mi faceva sentire leggera, svincolata da qualsiasi contatto fisico. Solo l’aria e il mio corpo. Trovavo fantastiche queste sensazioni e me ne innamorai facilmente.

Decisi che, dopo il basket, la danza e il nuoto avevo finalmente trovato lo spazio che più mi rappresentava e mi faceva star bene, e che non l’avrei mai lasciato.

E così feci, anche quando i medici mi diagnosticarono una malattia genetica rara della vista che avrebbe lentamente rubato nitidezza alle immagini. Travolta dallo sconforto appesi per qualche tempo le scarpette al chiodo incapace di affrontare le difficoltà emotive e fisiche che la perdita di vista mi sottoponeva.

Poi conobbi la Fispes, e la pista fu di nuovo sotto i miei piedi,., con una aggiunta: un cordino e Giulia.

Ci siamo conosciute un anno fa, quando ho iniziato ad aver bisogno di una guida per continuare a praticare la mia più grande passione. Lei, ex ostacolista, aveva smesso di allenarsi da qualche tempo e non riuscendo ad abbandonare totalmente l’atletica decise di offrire i suoi occhi per condividere insieme a me le emozioni della corsa.

Due modi di correre diversi, lei una falcata ampia, io più frequente. Due braccia che quindi dovevano coordinarsi, precise ed efficaci perché il rettilineo è breve e la sintonia è fondamentale

Impegno, costanza, tenacia e sorriso. Allenamento dopo allenamento abbiamo scoperto di essere legate oltre che da un cordino da un’amicizia sincera e da una fiducia reciproca che ora ci rendono inseparabili.

Quando le dissi che eravamo state invitate a partecipare al Golden Gala nel giugno 2019, dall’altra parte del telefono lei fu incapace di trattenere un grido di gioia. E da quell’annuncio fino al giorno in cui varcammo la pista dello stadio olimpico, lei non smise di ripetermi il suo motto ”non dire gatto se non ce l’hai nel sacco!”. Non voleva credere che fosse vero partecipare a quell’evento non come spettatrice abituale, ma come atleta.

Insieme all’entusiasmo però anche tanta preoccupazione e tanti dubbi... correvamo insieme da solo un mese e molti erano i dettagli tecnici da sistemare. La partenza dai blocchi, la coordinazione, l’attenzione sul traguardo perchè io fossi più avanti di lei.

Così nelle settimane precedenti alla nostra prima gara, sotto l’occhio attento di Elisa, la nostra allenatrice, abbiamo concentrato tutte le energie nel tentativo di perfezionare al massimo in quei pochi giorni, tutte le imperfezioni del caso.

Prima di partire alla volta di Roma, un’unica raccomandazione da parte di Elisa: “Pensate solo a correre veloci, il resto viene da sé!”

Elisa per me un esempio, tenace, tosta, sempre proiettata oltre le difficoltà, incredibilmente pronta alla risoluzione dei problemi, una super allenatrice e una super donna, che ci diede la carica per affrontare con il giusto atteggiamento quella prima sfida.

Allo sparo quindi lasciammo da parte tutti i timori determinate a dare del nostro meglio e a divertirci.

Tagliammo il traguardo per prime, registrando il personale sui 100 metri, il risultato di un trio tutto al femminile che ci diede la carica per affrontare la stagione agonistica appena iniziata. Io e Giulia ci scambiammo i pettorali per scrivere dietro una dedica in ricordo della nostra prima gara insieme e mi emozionai particolarmente alle parole di Giulia “Grazie per avermi regalato un sogno”.

Ne fui colpita. Lei ringraziava me. Fui contenta e al contempo sollevata di aver ricompensato il suo prezioso aiuto, la sua presenza silenziosa ma indispensabile che mi facevano sentire in debito.

Credo che questo sia il ricordo più bello che mi porto di quella sera, l’insegnamento che Giulia inconsapevolmente mi diede con il suo inaspettato ringraziamento: la reciproca riconoscenza per la condivisione di momenti ed esperienze che l’una dona all’altra.

Giulia mi dice spesso che conoscendo l’atletica paralimpica ha conosciuto un’atletica nuova, che non aveva mai considerato, con dei valori aggiunti preziosi: il condividere gli allenamenti, l’adrenalina della gara, la fatica, il traguardo, le sconfitte, gli errori.. Lei non ha mai considerato l’atletica come uno sport individuale, ma da quando corre come guida ha rafforzato ancor di più questa sua convinzione ed è bello sapere, che anche chi fa da guida possa provare emozioni forti, al pari dell’atleta con cui sta correndo.

Non so se mi sono spiegata bene, a volte il fatto di aver bisogno di un braccio per camminare, di una persona che ti aiuti ti fa credere di essere costantemente in difetto, in debito per la generosità e l’attenzione che ti stanno dedicando. Invece ti accorgi che anzitutto chiedere aiuto non è qualcosa di negativo e che senza saperlo dai la possibilità all’altro di conoscere qualcosa di nuovo, dove magari trova spazio un lato nuovo di sé.

Giulia non sapeva cosa volesse dire guidare un atleta ipovedente, e il fatto di averlo scopertole sta dando la possibilità di continuare a praticare la sua più grande passione sotto un’altra luce, nuova e arricchente, e di questo ne sono immensamente felice.

Antonella Inga

lunedì 25 maggio 2020

L' ALFABETO DELL' ATLETICA 2000! #restiamouniti




Cari bimbi 🤸🏻‍♂️

la parola "Atletica" ci ha accompagnati spesso in queste lunghe settimane passate a casa e adesso tocca a noi rappresentarla al meglio 🎨

Per l'attività "L'alfabeto dell'Atletica2000" potrete utilizzare tutto ciò che volete (libri, oggetti, parti del corpo, sassi, ecc.) per riprodurre la parola *ATLETICA*  📚


Una volta finita fate una foto della vostra scritta e mandatecela, le 6 foto con le scritte più belle e originali verranno pubblicate sul blog dell'Atletica2000 📸 

Avete tempo fino a giovedì 28 maggio, liberate la vostra creatività e fantasia..buon lavoro!! 😜

Spediteci la foto del vostro lavoro alla mail asdatletica2000@gmail.com o via whatsapp al 333-9554482 o al 333-1067589


A presto!
Vittoria &Atletica 2000 😚

ecco alcuni lavori:

Eva e Elisa

Eva e Elisa


Giacomo


Iacopo


Francesco

domenica 24 maggio 2020

10 NOVEMBRE 2019, LO STRANO GIORNO DEL RISCATTO - Racconto di Francesca Cipelli#restiamouniti


Francesca Cipelli, per chi ha avuto il piacere di conoscerla, è un tornado di sorrisi e risate che riesce a mettere q chiunque buon'umore. E quando vieni sommerso da questo torrente in piena ti rendi conto di che valore ha la sua esperienza per chiunque ha paura di parlare di se stesso, delle proprie insicurezze, delle proprie anormalità (perché tutti ne abbiamo una o più, anche i supereroi), delle proprie sconfitte. Qui, con Francesca, c'è sempre il sorriso al posto della punteggiatura, è il sorriso che mette le pause, i punti e le virgole. Francesca è invidiabile perché sa portare a galla valori reali e, senza che tu te ne accorga, cominci a capire quanto limitiamo la nostra vita con inutili orpelli.

Matteo Tonutti

D.S. ASD Atletica 2000

Qualche settimana fa leggo un messaggio: “ti va di condividere un ricordo?”

Ci ho pensato e ripensato ma, nella mia mente offuscata e confusa dall’anormale quotidianità di questo periodo storico, non c’era nulla che valesse la pena di essere raccontato. Fino a una domenica qualunque, in cui come tutte le mattine accendo il telefono, vedo la data ma rimango folgorata: era il 10 maggio 2020. La mia mente in quel momento inizia ad elaborare freneticamente i ricordi, perché quel preciso giorno non solo era la festa della mamma (auguri a tutte), ma anche la ricorrenza di una data che mi cambiò profondamente e che segnò la mia maturazione sportiva e la mia consapevolezza come atleta a tutti gli effetti.

Sono passati 6 mesi dal sogno di una vita, la mia gara ai mondiali paralimpici di Dubai, che fu anche una giornata parecchio strana; cercherò ora di narrarvela.

Il 10 novembre 2019 fu un giorno speciale, sicuramente pieno di entusiasmo per la gara imminente, ma anche perché successero delle cose assai fuori dall’ordinario. Questo mi sorprese ancora, nonostante agli europei di Berlino, l’anno prima, capitò un imprevisto analogo: mi venne chiesto di cambiare stanza d’hotel il giorno della mia gara. Sarebbe stata una banalità se non fosse che ero l’agitazione in persona, e quest’imprevisto fece frantumare il mio vaso di Pandora; la gara fu infatti un disastro, perché terminai al 4o posto, a due centimetri dal bronzo. 

Questa volta, però, già la sera prima partì col piede sbagliato, quando le porte dell’ascensore mi si chiusero sul ginocchio destro (quello di Emy) mentre stavo uscendo direzione camera. Anche se ero psicologicamente ed emotivamente stabile il fatto mi lasciò ugualmente perplessa, ma non ci diedi molto peso. Il mattino seguente altra sorpresa: mi ritrovai il tecnico dell’hotel in camera perchè doveva “controllare la tv”. Non l’avevo mai accesa, però gli lasciai fare il suo lavoro, mentre mentalmente ridevo rumorosamente; “ci risiamo” mi dissi, credendo la stranezza fosse finita lì. Invece era solo l’inizio. 

Prima di pranzo dovevamo fare la foto di squadra all’aperto, vicino all’hotel, ma il cielo si ingrigì così tanto che fummo costretti a farla in hotel. Questo mi fece ricordare che era da giorni che tutti i volontari della manifestazione erano in estasi per la previsione di pioggia, evento più unico che raro considerando che la metropoli sorge nel deserto. Anche a ciò non badai molto perché mi dissi che le previsioni meteo sarebbero state inesatte, come spesso avviene. Nel primo pomeriggio, poco prima di mettermi la divisa da gara, invece, dalla grande finestra della mia camera, scorgo accadere l’inevitabile: la pioggia inizia a bagnare la calda Dubai. Ripensandoci anche l’anno prima, di nuovo a Berlino, solo il giorno della mia gara la temperatura si abbassò drasticamente, c’era piovischio e forte vento!

Decisi che non mi potevo ri-lasciare sopraffare da ciò che non è in mio controllo. Iniziai a pensare all’annata che mi aveva condotto fino a lì, alla forma che resisteva da metà febbraio, quando avevo stabilito il primo record italiano dell’annata, e che nonostante i 9 mesi passati non ero calata nelle prestazioni, anzi! Pensavo ai sacrifici fatti per poter gareggiare rinunciando e mettendo in secondo piano la famiglia, gli amici e l’università. Pensavo a quanto avevo creduto e sperato negli anni anni precedenti, quando vidi il mondiale di Londra sfumare per un niente. E pensavo, pensavo alla dedizione delle persone che lavorano con e per me in questo obiettivo condiviso, alla federazione che aveva creduto, scommesso ed investito molto in me. Per queste ed altre ragioni mi dissi che non mi sarei lasciata rubare la gara più importante della vita per dei futili eventi inattesi.

 Durante il riscaldamento, per fortuna, la pioggia era ormai un ricordo. “Pista bagnata, pista fortunata” mi dissi.

All’ingresso della call-room non potevo essere più carica. Nel riscaldamento il coach, che ormai era diventato confidente, mi disse che stavo bene e che avevo tutte le carte in regola per fare una bella gara. In effetti avevo ottime sensazioni e mi sentivo invincibile.

In gara la situazione cambiò, iniziai a sentire la tensione, ma era negativa. La cinese, già primatista mondiale, fece il record mondiale al primo salto, fermando la gara per 40 minuti per pratiche di ufficialità.

5,22 mt, impossibile per me! 

Mi resi conto ancora una volta, di non essere alla pari delle mie avversarie. Loro hanno delle abilità fisiche superiori alle mie e, nonostante mi fosse chiaro fin dal 2014, con la prima classificazione internazionale, vederne così tante tutte assieme che facevano atletica da poco ed avevano già ottenuto risultati maggiori dei miei, mi fece arrancare.

Nonostante ciò entrai tra le sei finaliste, con tutti e 6 i salti, ma la mia gara finì al terzo. La tensione divenne insopportabile, e commisi vari errori tecnici. 

La misura migliore? 3.99m. Non era male in fin dei conti, considerando che avevo fatto il personal best 5 mesi prima di soli 7cm in più. Ma avrei voluto di più.

Fu dura accettare la sconfitta personale nel non essermi superata; ricordo in diretta RAI post-gara le lacrime di rabbia scrosciare dal mio viso, e la Caporale che tentava di consolarmi invano.

Già la settimana seguente, dopo essere tornata dall’esperienza che mi più mi ha arricchito e fatta maturare di tutti gli 8 anni nell’atletica, ridevo. Ridevo per la mia competitività, per la mia voglia di migliorare, per la mia caparbietà nel proseguire nonostante la categoria non mi rendesse giustizia.

Riflettei. Ero stata l’unica atleta con cerebrolesione acquisita ad aver raggiunto una finale mondiale nella mia categoria. Avevo la possibilità di continuare a segnare la strada per chi è come me e battermi per il diritto di avere una categoria che sia degna della nostra diversità; di ciò ne avevo parlato (a mia insaputa), il giorno dopo la mia gara, con un dirigente del World Para Athletics che fu molto comprensivo e mi assicurò che ciò che ci dicemmo non sarebbero rimaste a lungo parole invane.

Quindi nonostante la giornata storta, nonostante le preoccupazioni e nonostante il risultato finale di quella gara, sono soddisfatta di tutti i traguardi raggiunti negli anni che mi hanno portato dove sono ora, con una consapevolezza maggiore di ciò per cui mi voglio impegnare.


Francesca Cipelli

mercoledì 20 maggio 2020

RISVEGLIO - racconto di Matteo Tonutti #restiamouniti


Questo racconto, risalente ad una quindicina di anni fa, è un viaggio che ho fatto dentro di me grazie a Samuele. Samuele, allora quattordicenne, è un ragazzo non vedente che mi ha permesso di entrare nel mondo dello sport paralimpico. Sono ricordi forti che non si dimenticano. Grazie Samu! 

Matteo Tonutti
D.S. ASD Atletica 2000

Dentro un locale spagnolo. E’ qui che mi trovo con in mano un calice di vino rosso dal gusto che indefinibile; una via di mezzo tra confettura e conserva. Non è male, è strano.
Avevo chiesto un Cabernet, ma il barman: “Solo vini spagnoli” sciorinando una serie di nomi che non avevo né la voglia né la pazienza di ascoltare. “Senti fammi tu un nero”. “Un rosso corposo?”. “Va bene”.

Eccomi qui a fissare il bicchiere, il suo interno rosso sangue venoso. Una ragazza, credo sudamericana, ha tagliato il mio sguardo, ma stasera proprio non è sera.
Cerco di non rincontrare quegli occhi neri, mi nascondo dietro al bicchiere e alla musica assordante. Perdo lo sguardo, fisso nel vuoto, stando attento a non direzionarlo verso nessuno, non voglio che alcuno abbozzi un’occhiata interrogativa, voglio perdermi nei miei pensieri. Il casino che c’è m’aiuta nell’intento.
Cosa s è rotto?
Prima di tutto la cerniera, o meglio, l’affare che chiude la cerniera, la zip; s’è staccato tre volte, la quarta gli è stata fatale. Un piccolo pezzo di metallo s’è rotto definitivamente all’uscita dal cinema.
L’ho cercato nella penombra, l’ho trovato e ne ho constatato l’inservibilità.

Ma non è questo il problema.
Se si è rotto, se non si aggiusta, si può sostituire.
Non mi fa paura. Non mi preoccupa.
Ciò che invece mi ha messo in crisi è la domanda che, come una palla sommersa nell'acqua, d’improvviso è esplosa venendo a galla. All’uscita dal cinema, dopo la fine del film, quella domanda mi ha costretto ad uscire nel freddo, ad entrare in questo bar e a ordinare qualcosa da fissare e bere a piccoli sorsi.

La domanda è “Perché non me ne sono accorto subito?”
Mentre rigiro il triste liquido nella coppa riavvolgo il film e ne cerco il senso. S’intitola Lo scafandro e la farfalla.
Un brillante giornalista amato da donne, nel pieno del successo e dell’essere uomo a tutto tondo cade preda di un improvviso ictus dal quale si risveglia, ma che lo porta a vivere da vegetale.
L’unico suo contatto comunicativo col mondo è l’occhio destro (il sinistro macabramente gli viene cucito).
Imprigionato nel proprio corpo, uno scafandro da palombaro, stringe poco alla volta un nuovo legame con se stesso. Tramite l’affetto delle persone care (moglie, figli, amante, padre e amici) scopre dentro di sé di avere una farfalla in potenza, scopre che il proprio corpo è un bozzolo di cui, purtroppo, non può liberarsi ma che gli permette, allo stesso tempo, di entrare in contatto con una nuova realtà.
Assieme all’occhio scopre che non sono morte altre due cose importanti: la memoria e l’immaginazione. Col solo movimento dell’occhio impara a comunicare colmando quel vuoto abissale che, in un primo tempo, sembrava insostenibile.

Così scrive, o fa scrivere, un libro sulla sua nuova percezione della vita.
Scrive cosa può vedere un uomo che rimane attaccato all’essenza della vita, un uomo apparentemente vinto dalla vita, in realtà pieno di aspetti vitali che prima non riusciva e non era capace di cogliere.
Costretto all’immobilità, è costretto a vedere e rimpiange il fatto di non averlo fatto prima.
Muore, ma ha scritto un libro e ne avrebbe voluto scrivere altri.

Il vino è finito, ho già pagato, non mi attardo…
E’un film triste, soprattutto se lo si vede da soli, del resto ormai al cinema ci vado quasi unicamente da solo, e forse ciò è ancora più triste!
Non è questo che mi disturba, né il film, né la mia solitudine.
E’ il risveglio tardivo. Il risveglio tardivo che mi ha indotto la lettura del film.
La domanda ritorna: “ Perché non me ne sono accorto subito?”.

Da quanto seguo Samuele non so dirlo con precisione, forse cinque mesi.
Ha fatto tanti progressi.
Samuele è una ragazzo cieco o non vedente (non mi sono mai posto troppi problemi sui termini e del resto neanche lui) di quattordici anni.
Ha perso progressivamente la vista durante le scuole elementari.
Non l’ho mai sentito lamentarsi della sua situazione. Lui è vivo, è un ragazzo di quattordici anni e lo tratto come tale, senza sconti.
Lui voleva fare atletica, io ero disponibile ad allenarlo e insieme abbiamo detto “Proviamo!”.

Mi ha aperto un mondo.
Mi ha messo incrisi non tanto rispetto a cosa fare con lui, a come trattarlo, no.
Il problema è solo mio o era solo mio.
Ho dovuto riconsiderare il valore di tante cose che si vedono, che ci chiamano e ci distolgono da quello che siamo veramente. E mi fermo qui.

Stasera, nei vicoli con le pietre squadrate, non camminano assieme a me neanche questi pensieri. Sono accompagnato solo da un evento che probabilmente non avevo digerito, di cui non ne avevo percepito l’importanza.
Mercoledì sono riuscito a far correre più veloce del solito Samuele, ma parecchio più veloce!
Ho capito come modificare il suo assetto di corsa semplicemente cercando di fargli abbassare leggermente la testa (e quindi di inclinare tutto il busto) in avanti.
Gli ho detto che aveva le corna e che per caricare, come fosse un toro, la testa deve stare bassa.
Gli ho detto che avendo le corna ora avrebbe anche potuto in velocità andare a sbattere contro un palo, se si fossero rotte non sarebbe stata una grande perdita!

Ho rotto qualcosa in lui. Ho rotto qualcosa che ha aperto non una strada, non una radura, ma una valle o una regione. L’ho fatto correre veloce!
E, con voce rotta dall’emozione mi ha ripetuto più volte: “Non pensavo, non pensavo di riuscire a correre così veloce”. Me l’ha ripetuto più volte ma non mi è accesa la lampadina che avrebbe dovuto accendersi.
L’ho capito solo venerdì, dopo Lo Scafandro e la farfalla.

Dopo aver rotto definitivamente la zip del giubbotto. Dopo essermi reso conto che non era più raggiustabile.
Solo in quel momento ho capito che ho rotto qualcosa in lui, qualcosa si è rotto definitivamente e non è più riaggiustabile.
L’ho capito dal tono della frase che mi aveva ripetuto e che mi rintronava mentre cercavo per terra il pezzetto mancante della cerniera.

Mi sono reso conto che l’ho aiutato a rompere lo scafandro, il bozzolo.
E’ uscito farfalla e si è emozionato. Ha capito.
Ed io l’ho capito solo due giorni dopo, cazzo!

Per fortuna la prossima settimana rivedo Samuele.
Per fortuna c’è il mistero che non si può spiegare e si deve solo accettare.
Se non fosse così non avrei la forza né mentale né fisica di uscire da questo bar, rientrare nel freddo, accendere la macchina e partire con l’unico pensiero di arrivare a casa per poi scrivere questa storia.

Matteo Tonutti


venerdì 15 maggio 2020

VIAGGIO NELLA TERRA DI MEZZO. Flashback dalle Olimpiadi di Pechino - Racconto di Mario Gasparetto#restiamouniti

Alessandro Talotti all'ingresso della Città proibita - Olimpiadi di Pechino 2008


Per introdurre questo racconto parto da un aneddoto. Alessandro Talotti anni fa, portò a Udine il fortissimo saltatore Stephan Holm, atleta da 2,40 ed in possesso del maggior differenziale tra altezza (è alto circa 1,80mt) e Personal Best, ovvero ben 60cm. Avendo il piacere di conoscere Alessandro assieme al mai scollegabile proprio scopritore e allenatore Mario Gasparetto ho sempre pensato, ma mai detto per una sorta di rispetto, che a mio parere questa forte coppia registra il maggior differenziale tra altezza dell'allenatore (Mario non è un gigante) e il record del proprio atleta. Mi permetto di dirlo adesso perché sento l'affetto che Mario ha per il proprio atleta, amico, forse figlio  acquisito Alessandro. L'allenatore prepara l'atleta ad una gara, l'atleta apprende prova, sbaglia, ma la gara è sempre sua. L'allenatore è l'ombra dell'atleta, è spesso il genitore mancato, è colui che ti vuole sostenere, sempre e comunque. Nella salute e soprattutto nella malattia.

Per questo Mario dedica ad Alessandro questo lungo e denso racconto.

Matteo Tonutti
D.S. ASD Atletica 2000


Se un giorno vi dovesse capitare di trovarvi dalle parti di Pechino potrebbe succedere anche a voi di ascoltare la leggenda che narra di come tutti i cinesi discendano da cento ceppi primigeni, i “Vecchi Cento Nomi”, e che quindi non siano altro che l’esito di una sorprendente commistione di generi. Al di là della metafora, questa è la Cina, terra di tradizioni lontane e paese ricco di contraddizioni. Un intreccio che complica non poco il voler raccontare – sotto forma di brevi flash e senza troppe pretese, ero in veste di allenatore personale di un atleta e dunque marginale rispetto la delegazione ufficiale - di una trasferta in occasione delle Olimpiadi. Ma questo mio essere in veste privata si rivelerà un vantaggio. Anche perché così ho conosciuto Anna.

Ero appena sceso nella hall dell’hotel dove avevo preso alloggio ed ero in cerca di un taxi per raggiungere la Beijing Sport University sede della delegazione azzurra dove avevo appuntamento per l’allenamento pomeridiano. Il primo problema che mi si presentava era la lingua, e non era il solo. Incominciavi con lo scoprire che se in tutto il mondo i taxi si chiamano così, in Cina neanche i tassisti questo lo sanno, il ché rappresenta già un primo ostacolo. Perché poi non parlano l’inglese, e questo anche ci sta, prova a girare per Roma. Ma molti balbettano pure il cinese. La maggior parte di loro conosce solo poche centinaia di ideogrammi sui circa 50mila usuali e se aggiungiamo che gli ideogrammi non sono lettere d’alfabeto ma rappresentano concetti e bisogna impararli a memoria... o li conosci o sono “cinese” anche per i cinesi. 


Comunque sia, il primo passaggio, così mi era stato suggerito, sarebbe stato quello di far scrivere dal personale dell’albergo la mia destinazione in ideogrammi cinesi. La maggior parte dei grandi hotel offre dei cartoncini già prestampati con le principali destinazioni turistiche della città in inglese e in cinese. Ipotesi che non rientrava nel mio caso, anche perché nonostante avessi scritto personalmente in inglese l’indirizzo del dipartimento dove dovevo recarmi questo sembrava del tutto sconosciuto agli addetti alla reception. E addio traduzione. Mi rivolgo allora all'apposito chiosco informazioni predisposto dal Comitato organizzatore. Ce n’erano in giro di questi chioschi per tutta la città, animati da volontari più cerimoniosi che informati. Questi che trovo nella hall, c’era, infatti, un’infopoint anche all’interno dell’hotel in quanto sede ufficiale di diverse delegazioni, pur tra mille sorrisi che nascondevano l’imbarazzo, non sapevano essermi d’aiuto. 


E’ allora che noto una ragazza intenta a scrivere qualcosa sul mio bigliettino mestamente immacolato fino a quel momento. “Ghe g’ò scrito mi ‘ndo ga de andar”- mi spiega – “mi sòn Ana, piacer, e vegno da Treviso, cognòsso él cinese perché go studia Lingue Orientali e sòn chi co’ na borsa de studio. Se ‘l g’a bisogno de mi, sòn a la casa deo studente, dadrio ‘l cantòn”.  Ho trovato il mio Marco Polo.

Una statua di Mao Tse-Tung alquanto anonima domina l’ingresso del Dipartimento dell’Università sede della spedizione italiana. Certo come monumento, quello del “Grande Timoniere”, non pecca per originalità. Come trovo ordinario il fatto che sua “maestà” il calcio abbia sfrattato la “regina” delle olimpiadi dal campo di allenamento del campus, costringendo gli atleti a raggiungerne un altro con i bus navetta.  Nel pomeriggio in cui capito io, invece, ci adattiamo alla struttura coperta di cui è dotata la facoltà. E’ a poche decine di metri, ma non per questo agevole da raggiungere. Perché tra la casa dello studente, un edificio moderno e molto ospitale, e il vetusto impianto indoor ci sono da superare due check-point. Due ne avevo già superati per potermi introdurre nel campus: controllo dei documenti al primo e metal detector al secondo. 


D’altronde è una questione sicurezza, in una città come Pechino dove il livello di attenzione è altissimo. 

E dove il tuo status symbolum e la tua possibilità di movimento diventano i “pass”, che ti consentono di oltrepassare i controlli e di aver accesso ai diversi siti dell’Olimpiade. Solo per poter entrare in camera mia devo esibire l’apposito “pass” a tre diversi di questi check-point, che significa tre inchini e tre sorrisi ogni volta che entri, tre inchini e tre sorrisi ogni volta che esci, tre inchini e tre sorrisi ogni volta che vai al bar… sempre accompagnati da un “ni hao!” che, più o meno, equivale al nostro ciao.

L’allenamento alla Sport University scorre tranquillo. Pochi elementi: due alzate con i pesi, tanto per mantenere il tono muscolare, qualche balzo a tener sveglie le gambe e un po’ di corsa leggera. Nulla di più. D’altronde oramai, e lo noto anche negli altri atleti, ciò che conta sono i dettagli e la ricerca del gesto morbido. Dopo mesi di lavoro, arrivati alla vigilia dell’appuntamento clou, quello che da solo può valere una vita di sport, tutto ciò che cerchi negli ultimi allenamenti è il conforto della tua condizione. L’atmosfera mi pare rilassata, forse di una serenità un po’ artefatta che maschera quella sottile tensione che accompagna tutti i gesti. La noto nel silenzio ovattato, mai una voce sopra le righe, quasi a non voler spezzare quel guscio dove ogni atleta si rinchiude con i propri sogni e le proprie inquietudini. 


Anche l’atmosfera alla casa dello studente mi pare serena. Qui prima o poi ci passano tutti, perlomeno tutti quegli atleti che gareggeranno negli impianti della capitale e che prima di essere ospitati all’Olimpic Village nei giorni a ridosso delle rispettive gare qui trovano alloggio e la cucina ottima e italianissima dello chef Giovanni, in trasferta anche lui a Pechino direttamente dai fornelli del Centro di Preparazione Olimpica di Formia.

 A proposito di cucina, posso approfittare della mia autonomia per sperimentare qualche piatto tipico. Anche qui ci pensa Anna che mi porta ad assaggiare la Peking Roast Duck, l’anatra laccata alla pechinese. I cinesi sono convinti che i cibi si dividano in “yang”, quelli di natura calda, e “yin”, quelli di natura fredda. La salute è armonia e equilibrio dinamico tra yin e yang. C’è quindi un’origine filosofica anche alla base della gastronomia tradizionale. L’anatra viene considerata un cibo yin, di sapore dolce ma di natura fredda. Mangiarla è quasi un rito che pare risalire all’epoca della dinastia Ming. 


L’anatra viene portata al tavolo e mostrata ai commensali. Poi il cuoco stacca la pelle dalla carne che taglia a rombi e serve su delle specie di crèpes, dette alla mandarina, insieme con una salsa particolare. Per l’occasione ci concediamo un vino bianco australiano al posto del consueto e decoroso Cabernet della China Great Wall Wine Company. Naturalmente anche in questo settore i cinesi reclamano la primogenitura e dopo la paternità della bussola, della polvere da sparo, delle carte da gioco, degli spaghetti e, dicono loro, anche del calcio, esibiscono ricerche che fanno risalire la loro produzione enoica a circa 4600 anni fa. E noi al liceo, ingenui! chini a tradurre Orazio: “Nulla placere diu nec vivere carmina possunt quae scribuntur aquae potoribus - non possono piacere a lungo né vivere i versi scritti dai bevitori di acqua”. L’orgoglio italico si prende, però, la sua bella rivincita quando scopro, visitando il Palazzo d’Estate, che l’imperatore Qianlong, nel XVI secolo, lo aveva fatto progettare e costruire al gesuita italiano Giuseppe Castiglioni. 


Ma c’è poco tempo per il turismo, e oltre al Palazzo d’Estate mi limito agli itinerari imperdibili del turista medio, la Città Proibitala Grande Muraglia. E poi piazza Tian'anmen enorme nelle sue pietre grigie, che ti fa venire in mente non il Celeste Impero ma i carrarmati dell’89 e gli studenti a cercare di sbarrargli la strada. Almeno a noi occidentali, perché in Cina la notizia è da sempre censurata e quindi quel ricordo non esiste. Noto che siamo lontani dagli afflussi cui siamo avvezzi in Italia e ovunque c’è un’assoluta predominanza di cinesi per un turismo interno che solo ora sembra cominci a svilupparsi. L’unico posto riservato esclusivamente a noi occidentali è lo Silk Market. E’ situato nella Silk Street, la Via della Seta, un nome evocativo per il più grande mercato mondiale dei falsi. Tutto, stoffe, camicie, giacche, pantaloni, scarpe, orologi o giocattoli, qualsiasi manufatto di marca qui lo trovi contraffatto, certificato e controllato dallo Stato. E qui incontri proprio tutti. Io m’imbatto, tra gli altri, nel vecchio presidente della federazione Gianni Gola con signora, con il quale ci scambiamo alcune battute e che prima di congedarmi vuole al cellulare Alessandro per un classico “in bocca al lupo”; e l’intera tribù dei Cainero i cui volti tradiscono la memorabile serata di baldoria per l’oro di Chiara del giorno precedente.


E’ un gioiello il "Bird's Nest", il “Nido d’uccello”, lo stadio nazionale costato 314 milioni di euro. Tecnologico, ordinato, pulito. Se non fosse per la fiamma olimpica che arde nel braciere posto proprio sopra le nostre teste, sembrerebbe di essere in un impianto coperto. Ma quello che più mi sorprende, entrandovi, è la totale assenza di emozione che mi accompagna. Saranno state queste ultime settimane cariche di tensione e le continue incertezze per una convocazione che sembrava non dover arrivare mai, ma mi sento come svuotato. Sia come sia, mi accomodo nel “coaches stand”, il settore riservato ai tecnici.  Sopra di me 90mila persone. Un pubblico caldo, corretto e competente, istruito dalla tv di stato che manda in onda con regolarità brevi spot a spiegare le regole essenziali delle diverse discipline. Eppure, per me, nessuna adrenalina. Che invece sale a mille e quasi mi fa rotolare a terra, all’improvviso, quando vengo travolto da una “ola” che non avevo visto arrivare. Era il turno del primo salto di qualificazione di Alessandro. 


Mi ero alzato in piedi ed ero salito di qualche scalino nel tentativo di vedere meglio. Ero così assente a tutto quanto mi stava attorno che non mi ero neppure accorto di questa enorme onda umana che attraversava le tribune. Poi la gara se ne va in un amen. Quando partecipi a un evento quale un’olimpiade non puoi permetterti dubbi o incertezze. E invece, il ripresentarsi di un piccolo fastidio muscolare riduce tutto a quattro salti, perché nonostante tutto a un’olimpiade se ci sei, devi saltare; e poi a fare il tifo per gli altri azzurri ancora in gara, che la nostra olimpiade è già conclusa. Lo spettacolo è finito. Aspetto Alessandro, selezionato per l’antidoping, all’esterno del “Nido”. 


Ormai si è fatto tardi. Procedono davanti a me in silenzioso ordine i volontari addetti allo stadio, in fila come tanti soldatini e si dirigono verso i loro alloggi. Certe notti sembrano galleggiare nel tempo. E’ passata da un pezzo la mezzanotte quando ci infiliamo in un ristorante per mangiare qualcosa. C’è poca voglia di parlare; più che altro ci si mette d’accordo su cosa raccontare ai giornali del giorno dopo. Ormai è quasi l’alba quando rientro in albergo. La notte è tiepida, l’aria, anche quella tanto temuta di Pechino, leggera, gradevole. Domani per me sarà una finale senza patemi.


Li chiamano “hai”, mari, ma in realtà si tratta di tre piccoli laghi: Beihai, Zhonghai e Nanhaii che un tempo chiudevano a nord e a ovest la Città Proibita che ne traeva l’acqua per il fossato che la circonda. Oggi ne sono separati da uno dei tanti viali ad alto scorrimento che tagliano la città, cosicché sono pochi gli occidentali che arrivano fino a qui. Mi ci porta una sera Anna, dopo cena. Sul più grazioso, quello di Beihai, dove il lungolago è costeggiato da una passeggiata su cui danno decine di piccoli locali frequentatissimi dalla gioventù pechinese. Ci puoi bere sia gli infusi della tradizione locale come i classici cocktail internazionali. Nel suo piccolo anche questa è globalizzazione. Le nuove generazioni, cresciute con internet, tendono ormai a vivere e a pensare all’occidentale. Certo, sono una piccola avanguardia di una modernizzazione che avanza a macchia di leopardo in una Cina che sta vivendo una veloce e radicale trasformazione, ma dove alcuni elementi sembrano resistere al cambiamento. E così, sorseggiando un mojito, una volta ancora è Anna che mi soccorre nello sforzo di capire il “Grande Drago”. 


La società cinese è fortemente collettivista e in generale è molto più imperniata sulla comunità e sulla famiglia rispetto a quanto non avvenga in Europa. E’ l’eredità di Confucio, che tramite i suoi insegnamenti ha definito un sistema di etica sociale fondata sulla gerarchia e sulla dualità di ogni relazione, che stabilisce diritti e doveri di ognuno e dove nessuno con il proprio comportamento personale deve mai mettere a rischio l’onore e la rispettabilità della propria famiglia e della collettività. Un corpus di principi etici chiamato “lian”, fondamentale per cogliere le sensibilità sociali di cui la Cina è portatrice e per capire il grande sostegno popolare di cui, nonostante tutto, gode il regime e che ha tutelato più delle misure di polizia le olimpiadi cinesi e ne ha determinato il successo al di là degli avvenimenti che l’hanno prima preceduta e poi accompagnata. 


Pur se frammentati in una cinquantina di etnie, i cinesi sono provvisti di un forte senso di appartenenza che noi occidentali dovremmo imparare a tenere in debito conto; in particolare la Vecchia Europa e l’Italia che viste da qui sembrano scivolare sempre di più verso la periferia del mondo. L’organizzazione dei giochi olimpici è stata l’occasione per recuperare l’identità e l’orgoglio della “Terra di Mezzo”, di una nazione che continua ad identificarsi con fierezza nello storico impero che si estendeva sotto il centro del cielo, costituendo il fulcro del mondo e di ogni civiltà. Anche se credo che lo sport alla fine si prenderà la sua rivincita e le Olimpiadi del 2008 saranno per sempre quelle dei 100 metri di Bolt.


Mario Gasparetto

Allenatore di Alessandro Talotti


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mercoledì 13 maggio 2020

I LUOGHI DEL CUORE VILLA OTTELIO SAVORGNAN - VOTALA!



È iniziato il concorso #ILuoghidelCuore e tra i candidati c’è anche #VillaOttelioSavorgnan di Ariis, che abbiamo avuto modo di esplorare lo scorso 2 febbraio organizzando la prima edizione della campestre giovanile FIDAL #VillaOttelioCrossCountry !



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