Questo racconto, risalente ad una quindicina di anni fa, è un viaggio che ho fatto dentro di me grazie a Samuele. Samuele, allora quattordicenne, è un ragazzo non vedente che mi ha permesso di entrare nel mondo dello sport paralimpico. Sono ricordi forti che non si dimenticano. Grazie Samu!
Matteo Tonutti
D.S. ASD Atletica 2000
Dentro un locale spagnolo. E’ qui che mi trovo con in mano un calice di vino rosso dal gusto che indefinibile; una via di mezzo tra confettura e conserva. Non è male, è strano.
Avevo chiesto un Cabernet, ma il barman: “Solo vini spagnoli” sciorinando una serie di nomi che non avevo né la voglia né la pazienza di ascoltare. “Senti fammi tu un nero”. “Un rosso corposo?”. “Va bene”.
Eccomi qui a fissare il bicchiere, il suo interno rosso sangue venoso. Una ragazza, credo sudamericana, ha tagliato il mio sguardo, ma stasera proprio non è sera.
Cerco di non rincontrare quegli occhi neri, mi nascondo dietro al bicchiere e alla musica assordante. Perdo lo sguardo, fisso nel vuoto, stando attento a non direzionarlo verso nessuno, non voglio che alcuno abbozzi un’occhiata interrogativa, voglio perdermi nei miei pensieri. Il casino che c’è m’aiuta nell’intento.
Cosa s è rotto?
Prima di tutto la cerniera, o meglio, l’affare che chiude la cerniera, la zip; s’è staccato tre volte, la quarta gli è stata fatale. Un piccolo pezzo di metallo s’è rotto definitivamente all’uscita dal cinema.
L’ho cercato nella penombra, l’ho trovato e ne ho constatato l’inservibilità.
Dentro un locale spagnolo. E’ qui che mi trovo con in mano un calice di vino rosso dal gusto che indefinibile; una via di mezzo tra confettura e conserva. Non è male, è strano.
Avevo chiesto un Cabernet, ma il barman: “Solo vini spagnoli” sciorinando una serie di nomi che non avevo né la voglia né la pazienza di ascoltare. “Senti fammi tu un nero”. “Un rosso corposo?”. “Va bene”.
Eccomi qui a fissare il bicchiere, il suo interno rosso sangue venoso. Una ragazza, credo sudamericana, ha tagliato il mio sguardo, ma stasera proprio non è sera.
Cerco di non rincontrare quegli occhi neri, mi nascondo dietro al bicchiere e alla musica assordante. Perdo lo sguardo, fisso nel vuoto, stando attento a non direzionarlo verso nessuno, non voglio che alcuno abbozzi un’occhiata interrogativa, voglio perdermi nei miei pensieri. Il casino che c’è m’aiuta nell’intento.
Cosa s è rotto?
Prima di tutto la cerniera, o meglio, l’affare che chiude la cerniera, la zip; s’è staccato tre volte, la quarta gli è stata fatale. Un piccolo pezzo di metallo s’è rotto definitivamente all’uscita dal cinema.
L’ho cercato nella penombra, l’ho trovato e ne ho constatato l’inservibilità.
Ma non è questo il problema.
Se si è rotto, se non si aggiusta, si può sostituire.
Non mi fa paura. Non mi preoccupa.
Ciò che invece mi ha messo in crisi è la domanda che, come una palla sommersa nell'acqua, d’improvviso è esplosa venendo a galla. All’uscita dal cinema, dopo la fine del film, quella domanda mi ha costretto ad uscire nel freddo, ad entrare in questo bar e a ordinare qualcosa da fissare e bere a piccoli sorsi.
La domanda è “Perché non me ne sono accorto subito?”
Mentre rigiro il triste liquido nella coppa riavvolgo il film e ne cerco il senso. S’intitola Lo scafandro e la farfalla.
Un brillante giornalista amato da donne, nel pieno del successo e dell’essere uomo a tutto tondo cade preda di un improvviso ictus dal quale si risveglia, ma che lo porta a vivere da vegetale.
L’unico suo contatto comunicativo col mondo è l’occhio destro (il sinistro macabramente gli viene cucito).
Imprigionato nel proprio corpo, uno scafandro da palombaro, stringe poco alla volta un nuovo legame con se stesso. Tramite l’affetto delle persone care (moglie, figli, amante, padre e amici) scopre dentro di sé di avere una farfalla in potenza, scopre che il proprio corpo è un bozzolo di cui, purtroppo, non può liberarsi ma che gli permette, allo stesso tempo, di entrare in contatto con una nuova realtà.
Assieme all’occhio scopre che non sono morte altre due cose importanti: la memoria e l’immaginazione. Col solo movimento dell’occhio impara a comunicare colmando quel vuoto abissale che, in un primo tempo, sembrava insostenibile.
Così scrive, o fa scrivere, un libro sulla sua nuova percezione della vita.
Scrive cosa può vedere un uomo che rimane attaccato all’essenza della vita, un uomo apparentemente vinto dalla vita, in realtà pieno di aspetti vitali che prima non riusciva e non era capace di cogliere.
Costretto all’immobilità, è costretto a vedere e rimpiange il fatto di non averlo fatto prima.
Muore, ma ha scritto un libro e ne avrebbe voluto scrivere altri.
Il vino è finito, ho già pagato, non mi attardo…
E’un film triste, soprattutto se lo si vede da soli, del resto ormai al cinema ci vado quasi unicamente da solo, e forse ciò è ancora più triste!
Non è questo che mi disturba, né il film, né la mia solitudine.
E’ il risveglio tardivo. Il risveglio tardivo che mi ha indotto la lettura del film.
La domanda ritorna: “ Perché non me ne sono accorto subito?”.
Da quanto seguo Samuele non so dirlo con precisione, forse cinque mesi.
Ha fatto tanti progressi.
Samuele è una ragazzo cieco o non vedente (non mi sono mai posto troppi problemi sui termini e del resto neanche lui) di quattordici anni.
Ha perso progressivamente la vista durante le scuole elementari.
Non l’ho mai sentito lamentarsi della sua situazione. Lui è vivo, è un ragazzo di quattordici anni e lo tratto come tale, senza sconti.
Lui voleva fare atletica, io ero disponibile ad allenarlo e insieme abbiamo detto “Proviamo!”.
Mi ha aperto un mondo.
Mi ha messo incrisi non tanto rispetto a cosa fare con lui, a come trattarlo, no.
Il problema è solo mio o era solo mio.
Ho dovuto riconsiderare il valore di tante cose che si vedono, che ci chiamano e ci distolgono da quello che siamo veramente. E mi fermo qui.
Stasera, nei vicoli con le pietre squadrate, non camminano assieme a me neanche questi pensieri. Sono accompagnato solo da un evento che probabilmente non avevo digerito, di cui non ne avevo percepito l’importanza.
Mercoledì sono riuscito a far correre più veloce del solito Samuele, ma parecchio più veloce!
Ho capito come modificare il suo assetto di corsa semplicemente cercando di fargli abbassare leggermente la testa (e quindi di inclinare tutto il busto) in avanti.
Gli ho detto che aveva le corna e che per caricare, come fosse un toro, la testa deve stare bassa.
Gli ho detto che avendo le corna ora avrebbe anche potuto in velocità andare a sbattere contro un palo, se si fossero rotte non sarebbe stata una grande perdita!
Ho rotto qualcosa in lui. Ho rotto qualcosa che ha aperto non una strada, non una radura, ma una valle o una regione. L’ho fatto correre veloce!
E, con voce rotta dall’emozione mi ha ripetuto più volte: “Non pensavo, non pensavo di riuscire a correre così veloce”. Me l’ha ripetuto più volte ma non mi è accesa la lampadina che avrebbe dovuto accendersi.
L’ho capito solo venerdì, dopo Lo Scafandro e la farfalla.
Dopo aver rotto definitivamente la zip del giubbotto. Dopo essermi reso conto che non era più raggiustabile.
Solo in quel momento ho capito che ho rotto qualcosa in lui, qualcosa si è rotto definitivamente e non è più riaggiustabile.
L’ho capito dal tono della frase che mi aveva ripetuto e che mi rintronava mentre cercavo per terra il pezzetto mancante della cerniera.
Mi sono reso conto che l’ho aiutato a rompere lo scafandro, il bozzolo.
E’ uscito farfalla e si è emozionato. Ha capito.
Ed io l’ho capito solo due giorni dopo, cazzo!
Per fortuna la prossima settimana rivedo Samuele.
Per fortuna c’è il mistero che non si può spiegare e si deve solo accettare.
Se non fosse così non avrei la forza né mentale né fisica di uscire da questo bar, rientrare nel freddo, accendere la macchina e partire con l’unico pensiero di arrivare a casa per poi scrivere questa storia.
Se si è rotto, se non si aggiusta, si può sostituire.
Non mi fa paura. Non mi preoccupa.
Ciò che invece mi ha messo in crisi è la domanda che, come una palla sommersa nell'acqua, d’improvviso è esplosa venendo a galla. All’uscita dal cinema, dopo la fine del film, quella domanda mi ha costretto ad uscire nel freddo, ad entrare in questo bar e a ordinare qualcosa da fissare e bere a piccoli sorsi.
La domanda è “Perché non me ne sono accorto subito?”
Mentre rigiro il triste liquido nella coppa riavvolgo il film e ne cerco il senso. S’intitola Lo scafandro e la farfalla.
Un brillante giornalista amato da donne, nel pieno del successo e dell’essere uomo a tutto tondo cade preda di un improvviso ictus dal quale si risveglia, ma che lo porta a vivere da vegetale.
L’unico suo contatto comunicativo col mondo è l’occhio destro (il sinistro macabramente gli viene cucito).
Imprigionato nel proprio corpo, uno scafandro da palombaro, stringe poco alla volta un nuovo legame con se stesso. Tramite l’affetto delle persone care (moglie, figli, amante, padre e amici) scopre dentro di sé di avere una farfalla in potenza, scopre che il proprio corpo è un bozzolo di cui, purtroppo, non può liberarsi ma che gli permette, allo stesso tempo, di entrare in contatto con una nuova realtà.
Assieme all’occhio scopre che non sono morte altre due cose importanti: la memoria e l’immaginazione. Col solo movimento dell’occhio impara a comunicare colmando quel vuoto abissale che, in un primo tempo, sembrava insostenibile.
Così scrive, o fa scrivere, un libro sulla sua nuova percezione della vita.
Scrive cosa può vedere un uomo che rimane attaccato all’essenza della vita, un uomo apparentemente vinto dalla vita, in realtà pieno di aspetti vitali che prima non riusciva e non era capace di cogliere.
Costretto all’immobilità, è costretto a vedere e rimpiange il fatto di non averlo fatto prima.
Muore, ma ha scritto un libro e ne avrebbe voluto scrivere altri.
Il vino è finito, ho già pagato, non mi attardo…
E’un film triste, soprattutto se lo si vede da soli, del resto ormai al cinema ci vado quasi unicamente da solo, e forse ciò è ancora più triste!
Non è questo che mi disturba, né il film, né la mia solitudine.
E’ il risveglio tardivo. Il risveglio tardivo che mi ha indotto la lettura del film.
La domanda ritorna: “ Perché non me ne sono accorto subito?”.
Da quanto seguo Samuele non so dirlo con precisione, forse cinque mesi.
Ha fatto tanti progressi.
Samuele è una ragazzo cieco o non vedente (non mi sono mai posto troppi problemi sui termini e del resto neanche lui) di quattordici anni.
Ha perso progressivamente la vista durante le scuole elementari.
Non l’ho mai sentito lamentarsi della sua situazione. Lui è vivo, è un ragazzo di quattordici anni e lo tratto come tale, senza sconti.
Lui voleva fare atletica, io ero disponibile ad allenarlo e insieme abbiamo detto “Proviamo!”.
Mi ha aperto un mondo.
Mi ha messo incrisi non tanto rispetto a cosa fare con lui, a come trattarlo, no.
Il problema è solo mio o era solo mio.
Ho dovuto riconsiderare il valore di tante cose che si vedono, che ci chiamano e ci distolgono da quello che siamo veramente. E mi fermo qui.
Stasera, nei vicoli con le pietre squadrate, non camminano assieme a me neanche questi pensieri. Sono accompagnato solo da un evento che probabilmente non avevo digerito, di cui non ne avevo percepito l’importanza.
Mercoledì sono riuscito a far correre più veloce del solito Samuele, ma parecchio più veloce!
Ho capito come modificare il suo assetto di corsa semplicemente cercando di fargli abbassare leggermente la testa (e quindi di inclinare tutto il busto) in avanti.
Gli ho detto che aveva le corna e che per caricare, come fosse un toro, la testa deve stare bassa.
Gli ho detto che avendo le corna ora avrebbe anche potuto in velocità andare a sbattere contro un palo, se si fossero rotte non sarebbe stata una grande perdita!
Ho rotto qualcosa in lui. Ho rotto qualcosa che ha aperto non una strada, non una radura, ma una valle o una regione. L’ho fatto correre veloce!
E, con voce rotta dall’emozione mi ha ripetuto più volte: “Non pensavo, non pensavo di riuscire a correre così veloce”. Me l’ha ripetuto più volte ma non mi è accesa la lampadina che avrebbe dovuto accendersi.
L’ho capito solo venerdì, dopo Lo Scafandro e la farfalla.
Dopo aver rotto definitivamente la zip del giubbotto. Dopo essermi reso conto che non era più raggiustabile.
Solo in quel momento ho capito che ho rotto qualcosa in lui, qualcosa si è rotto definitivamente e non è più riaggiustabile.
L’ho capito dal tono della frase che mi aveva ripetuto e che mi rintronava mentre cercavo per terra il pezzetto mancante della cerniera.
Mi sono reso conto che l’ho aiutato a rompere lo scafandro, il bozzolo.
E’ uscito farfalla e si è emozionato. Ha capito.
Ed io l’ho capito solo due giorni dopo, cazzo!
Per fortuna la prossima settimana rivedo Samuele.
Per fortuna c’è il mistero che non si può spiegare e si deve solo accettare.
Se non fosse così non avrei la forza né mentale né fisica di uscire da questo bar, rientrare nel freddo, accendere la macchina e partire con l’unico pensiero di arrivare a casa per poi scrivere questa storia.
Matteo Tonutti
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