venerdì 15 maggio 2020

VIAGGIO NELLA TERRA DI MEZZO. Flashback dalle Olimpiadi di Pechino - Racconto di Mario Gasparetto#restiamouniti

Alessandro Talotti all'ingresso della Città proibita - Olimpiadi di Pechino 2008


Per introdurre questo racconto parto da un aneddoto. Alessandro Talotti anni fa, portò a Udine il fortissimo saltatore Stephan Holm, atleta da 2,40 ed in possesso del maggior differenziale tra altezza (è alto circa 1,80mt) e Personal Best, ovvero ben 60cm. Avendo il piacere di conoscere Alessandro assieme al mai scollegabile proprio scopritore e allenatore Mario Gasparetto ho sempre pensato, ma mai detto per una sorta di rispetto, che a mio parere questa forte coppia registra il maggior differenziale tra altezza dell'allenatore (Mario non è un gigante) e il record del proprio atleta. Mi permetto di dirlo adesso perché sento l'affetto che Mario ha per il proprio atleta, amico, forse figlio  acquisito Alessandro. L'allenatore prepara l'atleta ad una gara, l'atleta apprende prova, sbaglia, ma la gara è sempre sua. L'allenatore è l'ombra dell'atleta, è spesso il genitore mancato, è colui che ti vuole sostenere, sempre e comunque. Nella salute e soprattutto nella malattia.

Per questo Mario dedica ad Alessandro questo lungo e denso racconto.

Matteo Tonutti
D.S. ASD Atletica 2000


Se un giorno vi dovesse capitare di trovarvi dalle parti di Pechino potrebbe succedere anche a voi di ascoltare la leggenda che narra di come tutti i cinesi discendano da cento ceppi primigeni, i “Vecchi Cento Nomi”, e che quindi non siano altro che l’esito di una sorprendente commistione di generi. Al di là della metafora, questa è la Cina, terra di tradizioni lontane e paese ricco di contraddizioni. Un intreccio che complica non poco il voler raccontare – sotto forma di brevi flash e senza troppe pretese, ero in veste di allenatore personale di un atleta e dunque marginale rispetto la delegazione ufficiale - di una trasferta in occasione delle Olimpiadi. Ma questo mio essere in veste privata si rivelerà un vantaggio. Anche perché così ho conosciuto Anna.

Ero appena sceso nella hall dell’hotel dove avevo preso alloggio ed ero in cerca di un taxi per raggiungere la Beijing Sport University sede della delegazione azzurra dove avevo appuntamento per l’allenamento pomeridiano. Il primo problema che mi si presentava era la lingua, e non era il solo. Incominciavi con lo scoprire che se in tutto il mondo i taxi si chiamano così, in Cina neanche i tassisti questo lo sanno, il ché rappresenta già un primo ostacolo. Perché poi non parlano l’inglese, e questo anche ci sta, prova a girare per Roma. Ma molti balbettano pure il cinese. La maggior parte di loro conosce solo poche centinaia di ideogrammi sui circa 50mila usuali e se aggiungiamo che gli ideogrammi non sono lettere d’alfabeto ma rappresentano concetti e bisogna impararli a memoria... o li conosci o sono “cinese” anche per i cinesi. 


Comunque sia, il primo passaggio, così mi era stato suggerito, sarebbe stato quello di far scrivere dal personale dell’albergo la mia destinazione in ideogrammi cinesi. La maggior parte dei grandi hotel offre dei cartoncini già prestampati con le principali destinazioni turistiche della città in inglese e in cinese. Ipotesi che non rientrava nel mio caso, anche perché nonostante avessi scritto personalmente in inglese l’indirizzo del dipartimento dove dovevo recarmi questo sembrava del tutto sconosciuto agli addetti alla reception. E addio traduzione. Mi rivolgo allora all'apposito chiosco informazioni predisposto dal Comitato organizzatore. Ce n’erano in giro di questi chioschi per tutta la città, animati da volontari più cerimoniosi che informati. Questi che trovo nella hall, c’era, infatti, un’infopoint anche all’interno dell’hotel in quanto sede ufficiale di diverse delegazioni, pur tra mille sorrisi che nascondevano l’imbarazzo, non sapevano essermi d’aiuto. 


E’ allora che noto una ragazza intenta a scrivere qualcosa sul mio bigliettino mestamente immacolato fino a quel momento. “Ghe g’ò scrito mi ‘ndo ga de andar”- mi spiega – “mi sòn Ana, piacer, e vegno da Treviso, cognòsso él cinese perché go studia Lingue Orientali e sòn chi co’ na borsa de studio. Se ‘l g’a bisogno de mi, sòn a la casa deo studente, dadrio ‘l cantòn”.  Ho trovato il mio Marco Polo.

Una statua di Mao Tse-Tung alquanto anonima domina l’ingresso del Dipartimento dell’Università sede della spedizione italiana. Certo come monumento, quello del “Grande Timoniere”, non pecca per originalità. Come trovo ordinario il fatto che sua “maestà” il calcio abbia sfrattato la “regina” delle olimpiadi dal campo di allenamento del campus, costringendo gli atleti a raggiungerne un altro con i bus navetta.  Nel pomeriggio in cui capito io, invece, ci adattiamo alla struttura coperta di cui è dotata la facoltà. E’ a poche decine di metri, ma non per questo agevole da raggiungere. Perché tra la casa dello studente, un edificio moderno e molto ospitale, e il vetusto impianto indoor ci sono da superare due check-point. Due ne avevo già superati per potermi introdurre nel campus: controllo dei documenti al primo e metal detector al secondo. 


D’altronde è una questione sicurezza, in una città come Pechino dove il livello di attenzione è altissimo. 

E dove il tuo status symbolum e la tua possibilità di movimento diventano i “pass”, che ti consentono di oltrepassare i controlli e di aver accesso ai diversi siti dell’Olimpiade. Solo per poter entrare in camera mia devo esibire l’apposito “pass” a tre diversi di questi check-point, che significa tre inchini e tre sorrisi ogni volta che entri, tre inchini e tre sorrisi ogni volta che esci, tre inchini e tre sorrisi ogni volta che vai al bar… sempre accompagnati da un “ni hao!” che, più o meno, equivale al nostro ciao.

L’allenamento alla Sport University scorre tranquillo. Pochi elementi: due alzate con i pesi, tanto per mantenere il tono muscolare, qualche balzo a tener sveglie le gambe e un po’ di corsa leggera. Nulla di più. D’altronde oramai, e lo noto anche negli altri atleti, ciò che conta sono i dettagli e la ricerca del gesto morbido. Dopo mesi di lavoro, arrivati alla vigilia dell’appuntamento clou, quello che da solo può valere una vita di sport, tutto ciò che cerchi negli ultimi allenamenti è il conforto della tua condizione. L’atmosfera mi pare rilassata, forse di una serenità un po’ artefatta che maschera quella sottile tensione che accompagna tutti i gesti. La noto nel silenzio ovattato, mai una voce sopra le righe, quasi a non voler spezzare quel guscio dove ogni atleta si rinchiude con i propri sogni e le proprie inquietudini. 


Anche l’atmosfera alla casa dello studente mi pare serena. Qui prima o poi ci passano tutti, perlomeno tutti quegli atleti che gareggeranno negli impianti della capitale e che prima di essere ospitati all’Olimpic Village nei giorni a ridosso delle rispettive gare qui trovano alloggio e la cucina ottima e italianissima dello chef Giovanni, in trasferta anche lui a Pechino direttamente dai fornelli del Centro di Preparazione Olimpica di Formia.

 A proposito di cucina, posso approfittare della mia autonomia per sperimentare qualche piatto tipico. Anche qui ci pensa Anna che mi porta ad assaggiare la Peking Roast Duck, l’anatra laccata alla pechinese. I cinesi sono convinti che i cibi si dividano in “yang”, quelli di natura calda, e “yin”, quelli di natura fredda. La salute è armonia e equilibrio dinamico tra yin e yang. C’è quindi un’origine filosofica anche alla base della gastronomia tradizionale. L’anatra viene considerata un cibo yin, di sapore dolce ma di natura fredda. Mangiarla è quasi un rito che pare risalire all’epoca della dinastia Ming. 


L’anatra viene portata al tavolo e mostrata ai commensali. Poi il cuoco stacca la pelle dalla carne che taglia a rombi e serve su delle specie di crèpes, dette alla mandarina, insieme con una salsa particolare. Per l’occasione ci concediamo un vino bianco australiano al posto del consueto e decoroso Cabernet della China Great Wall Wine Company. Naturalmente anche in questo settore i cinesi reclamano la primogenitura e dopo la paternità della bussola, della polvere da sparo, delle carte da gioco, degli spaghetti e, dicono loro, anche del calcio, esibiscono ricerche che fanno risalire la loro produzione enoica a circa 4600 anni fa. E noi al liceo, ingenui! chini a tradurre Orazio: “Nulla placere diu nec vivere carmina possunt quae scribuntur aquae potoribus - non possono piacere a lungo né vivere i versi scritti dai bevitori di acqua”. L’orgoglio italico si prende, però, la sua bella rivincita quando scopro, visitando il Palazzo d’Estate, che l’imperatore Qianlong, nel XVI secolo, lo aveva fatto progettare e costruire al gesuita italiano Giuseppe Castiglioni. 


Ma c’è poco tempo per il turismo, e oltre al Palazzo d’Estate mi limito agli itinerari imperdibili del turista medio, la Città Proibitala Grande Muraglia. E poi piazza Tian'anmen enorme nelle sue pietre grigie, che ti fa venire in mente non il Celeste Impero ma i carrarmati dell’89 e gli studenti a cercare di sbarrargli la strada. Almeno a noi occidentali, perché in Cina la notizia è da sempre censurata e quindi quel ricordo non esiste. Noto che siamo lontani dagli afflussi cui siamo avvezzi in Italia e ovunque c’è un’assoluta predominanza di cinesi per un turismo interno che solo ora sembra cominci a svilupparsi. L’unico posto riservato esclusivamente a noi occidentali è lo Silk Market. E’ situato nella Silk Street, la Via della Seta, un nome evocativo per il più grande mercato mondiale dei falsi. Tutto, stoffe, camicie, giacche, pantaloni, scarpe, orologi o giocattoli, qualsiasi manufatto di marca qui lo trovi contraffatto, certificato e controllato dallo Stato. E qui incontri proprio tutti. Io m’imbatto, tra gli altri, nel vecchio presidente della federazione Gianni Gola con signora, con il quale ci scambiamo alcune battute e che prima di congedarmi vuole al cellulare Alessandro per un classico “in bocca al lupo”; e l’intera tribù dei Cainero i cui volti tradiscono la memorabile serata di baldoria per l’oro di Chiara del giorno precedente.


E’ un gioiello il "Bird's Nest", il “Nido d’uccello”, lo stadio nazionale costato 314 milioni di euro. Tecnologico, ordinato, pulito. Se non fosse per la fiamma olimpica che arde nel braciere posto proprio sopra le nostre teste, sembrerebbe di essere in un impianto coperto. Ma quello che più mi sorprende, entrandovi, è la totale assenza di emozione che mi accompagna. Saranno state queste ultime settimane cariche di tensione e le continue incertezze per una convocazione che sembrava non dover arrivare mai, ma mi sento come svuotato. Sia come sia, mi accomodo nel “coaches stand”, il settore riservato ai tecnici.  Sopra di me 90mila persone. Un pubblico caldo, corretto e competente, istruito dalla tv di stato che manda in onda con regolarità brevi spot a spiegare le regole essenziali delle diverse discipline. Eppure, per me, nessuna adrenalina. Che invece sale a mille e quasi mi fa rotolare a terra, all’improvviso, quando vengo travolto da una “ola” che non avevo visto arrivare. Era il turno del primo salto di qualificazione di Alessandro. 


Mi ero alzato in piedi ed ero salito di qualche scalino nel tentativo di vedere meglio. Ero così assente a tutto quanto mi stava attorno che non mi ero neppure accorto di questa enorme onda umana che attraversava le tribune. Poi la gara se ne va in un amen. Quando partecipi a un evento quale un’olimpiade non puoi permetterti dubbi o incertezze. E invece, il ripresentarsi di un piccolo fastidio muscolare riduce tutto a quattro salti, perché nonostante tutto a un’olimpiade se ci sei, devi saltare; e poi a fare il tifo per gli altri azzurri ancora in gara, che la nostra olimpiade è già conclusa. Lo spettacolo è finito. Aspetto Alessandro, selezionato per l’antidoping, all’esterno del “Nido”. 


Ormai si è fatto tardi. Procedono davanti a me in silenzioso ordine i volontari addetti allo stadio, in fila come tanti soldatini e si dirigono verso i loro alloggi. Certe notti sembrano galleggiare nel tempo. E’ passata da un pezzo la mezzanotte quando ci infiliamo in un ristorante per mangiare qualcosa. C’è poca voglia di parlare; più che altro ci si mette d’accordo su cosa raccontare ai giornali del giorno dopo. Ormai è quasi l’alba quando rientro in albergo. La notte è tiepida, l’aria, anche quella tanto temuta di Pechino, leggera, gradevole. Domani per me sarà una finale senza patemi.


Li chiamano “hai”, mari, ma in realtà si tratta di tre piccoli laghi: Beihai, Zhonghai e Nanhaii che un tempo chiudevano a nord e a ovest la Città Proibita che ne traeva l’acqua per il fossato che la circonda. Oggi ne sono separati da uno dei tanti viali ad alto scorrimento che tagliano la città, cosicché sono pochi gli occidentali che arrivano fino a qui. Mi ci porta una sera Anna, dopo cena. Sul più grazioso, quello di Beihai, dove il lungolago è costeggiato da una passeggiata su cui danno decine di piccoli locali frequentatissimi dalla gioventù pechinese. Ci puoi bere sia gli infusi della tradizione locale come i classici cocktail internazionali. Nel suo piccolo anche questa è globalizzazione. Le nuove generazioni, cresciute con internet, tendono ormai a vivere e a pensare all’occidentale. Certo, sono una piccola avanguardia di una modernizzazione che avanza a macchia di leopardo in una Cina che sta vivendo una veloce e radicale trasformazione, ma dove alcuni elementi sembrano resistere al cambiamento. E così, sorseggiando un mojito, una volta ancora è Anna che mi soccorre nello sforzo di capire il “Grande Drago”. 


La società cinese è fortemente collettivista e in generale è molto più imperniata sulla comunità e sulla famiglia rispetto a quanto non avvenga in Europa. E’ l’eredità di Confucio, che tramite i suoi insegnamenti ha definito un sistema di etica sociale fondata sulla gerarchia e sulla dualità di ogni relazione, che stabilisce diritti e doveri di ognuno e dove nessuno con il proprio comportamento personale deve mai mettere a rischio l’onore e la rispettabilità della propria famiglia e della collettività. Un corpus di principi etici chiamato “lian”, fondamentale per cogliere le sensibilità sociali di cui la Cina è portatrice e per capire il grande sostegno popolare di cui, nonostante tutto, gode il regime e che ha tutelato più delle misure di polizia le olimpiadi cinesi e ne ha determinato il successo al di là degli avvenimenti che l’hanno prima preceduta e poi accompagnata. 


Pur se frammentati in una cinquantina di etnie, i cinesi sono provvisti di un forte senso di appartenenza che noi occidentali dovremmo imparare a tenere in debito conto; in particolare la Vecchia Europa e l’Italia che viste da qui sembrano scivolare sempre di più verso la periferia del mondo. L’organizzazione dei giochi olimpici è stata l’occasione per recuperare l’identità e l’orgoglio della “Terra di Mezzo”, di una nazione che continua ad identificarsi con fierezza nello storico impero che si estendeva sotto il centro del cielo, costituendo il fulcro del mondo e di ogni civiltà. Anche se credo che lo sport alla fine si prenderà la sua rivincita e le Olimpiadi del 2008 saranno per sempre quelle dei 100 metri di Bolt.


Mario Gasparetto

Allenatore di Alessandro Talotti


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